Verso sera il vento cala ed entriamo in un vuoto dorato. E’ questa la Siberia originaria, penso: la Siberia sfuggente, infinita, che perdurava com un inconscio geografico negli occhi dei primi viaggiatori. Il suo vuoto apparente era una lavagna pulita su cui scrivere. Per secoli sollevò dicerie e leggende, evocò ideali, suscitò paure. Persino il suo nome siber – una fusione mistica tra il mongolo siber, “bello, puro” e il tartaro sibir “terra addormentata” – suggeriva l’immagine di un altrove vergine e in attesa. Hegel la collocò addirittura fuori dai confini della storia: troppo fredda e ostile per ospitare una vita significativa. (“In Siberia” di Colin Thubron) “Siberiaaaaaaaaaaaa!” grido a bassa voce scendendo dal treno e soffocando l’entusiamo di un bambino. Come un marinaio che vede terra dopo giorni di navigazione approdiamo a Irkutsk, una città commerciale e industriale che un tempo chiamavano “la Parigi della Siberia”. Il paragone mi sembra subito azzardato ma sono le otto di sera e l’oscurità che sovrasta la città non aiuta ad orientarmi. Grandi palazzi, luci di negozi e centri commerciali prendono il posto delle infinite distese e spazi enormi che sognavo durante il lungo viaggio in treno. L’indomani mattina si parte verso l’isola di […]